Schönberg, l’espressionismo della pan-tonalità.

Tra Vienna, Berlino e Los Angeles: note biografiche di un genio 

Arnold Schönberg nacque a Vienna nel 1874 da una famiglia ebraica, assolutamente non ricca, ma colta, da cui ottenne, insieme ai suoi fratelli, i primi rudimenti musicali. Educato alle lettere da un poeta dilettante che gli insegnava francese, il piccolo Arnold, all’età di otto anni, grazie ad un compagno di scuola, scoprì il violino ed imparò subito a suonarlo con così tanto entusiasmo da cimentarsi subito nella composizione. Scoprì, in seguito anche la viola e imparò presto a scrivere dei trii per due violini e viola. A quindici anni, dopo la morte del padre, per aiutare la famiglia, iniziò a lavorare come commesso in una piccola banca viennese; a poco più di vent’anni, su consiglio di un amico pianista, si trasferì a Berlino, dove, ampliando le proprie potenzialità compositive, affiancato da molti intellettuali di tendenze rivoluzionarie dell’epoca, lavorò come direttore d’orchestra nel   Buntes Theater (Teatro variopinto) dove nasce lo spettacolo di cabaret Überbrettl (oltre il cabaret) e nei locali pubblici più rinomati della città tedesca. Tornato a Vienna, dal 1903, insegnò armonia e contrappunto. Fu un insegnante innamorato del suo lavoro per tutta la sua vita, ed ebbe tra i suoi allievi Anton Webern, Alban Berg. Nel 1912 si trasferì per poco tempo a Parigi dove scrisse il Pierrot Lunaire: un ciclo basato su 21 poesie ispirate alla celebre maschera francese d’origine bergamasca; in esse emerge il “canto parlato”, eseguito pronunciando le parole con intonazione in modo da renderle “musicali”. Poeta e compositore, Schönberg si dilettava anche come pittore. In questi anni divenne amico del grande pittore russo Vasilij Kandinskij ed entrò a far parte del gruppo Der Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro). Negli Anni Venti iniziò a comporre usando il metodo della dodecafonia. Nel 1933, a causa dell’inizio delle persecuzioni antisemitiche naziste portate avanti da Hitler, si trasferì negli Stati Uniti d’America, dove continuò la sua attività di compositore e insegnante, (tra i suoi allievi più illustri, sicuramente John Cage), prima a Boston e poi a Los Angeles, dove morì il 13 luglio 1951.

Il contesto, le influenze, le amicizie, l’attività

Vivere nella capitale austriaca, tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, era come ritrovarsi nella Firenze rinascimentale o nella New York negli anni ’60 del ‘900: c’era la “crema” degli intellettuali e pensatori dell’epoca (basti pensare a tutto il movimento psicoanalitico riconducibile a Sigmund Freud e al gruppo dei grandi compositori o ai pittori della corrente espressionista).

Quasi del tutto autodidatta, il musicista viennese si tuffa nel contesto culturale della sua città, “rompendo” un bel po’ le regole armoniche. Schönberg, l’armonia la conosceva benissimo, nonostante il suo percorso didattico non propriamente canonico, e la metteva a servizio di quella che lui definiva pan-tonalità e non atonalità, parola che non accettava, anche solo per il fatto che, come sappiamo, in tedesco, ton significa suono, quindi musica atonale significherebbe musica senza suono, il che è un po’ un paradosso.

Ritornando alla sua attività complessa di artista a tutto tondo (poeta-pittore-musicista), parlare di Arnold Schönberg è come immergersi in un quadro di infinito cromatico. Sicuramente conosceva bene il mondo dei pittori, essendo egli stesso, un valido esponente della corrente espressionista (famosissimo è il suo quadro The Red gaze (Lo Sguardo Rosso)del 1910. Fu allievo (ed amico) del giovanissimo Richard Gerstl che intrecciò una relazione con Mathilde, sua moglie. Così, una volta scoperto il tradimento, l’amicizia tra i due artisti si ruppe e Gerstl uscì dalla cerchia ristretta di intellettuali che ruotava intorno al musicista viennese. Ciò, probabilmente, diede il La all’idea suicida del giovane pittore che, simulando la scena di un quadro, si uccise mentre si specchiava. Il suicidio di Gerstl, sicuramente toccò molto l’animo di Schönberg e chissà se alcuni suoi capolavori, non siano serviti ad esorcizzare questa tragedia. Con l’aiuto di Mahler e, soprattutto di R. Strauss, ebbe la possibilità di occuparsi dell’altra sua grande passione: l’insegnamento. Mahler fu grande estimatore ed amico di Schönberg che rimase molto sconvolto della morte del suo mentore (famosa la sua frase «Mahler era un Santo»). Al grande compositore e direttore d’orchestra, Schönberg, dedicò il suo trattato di Armonia con una dedica “alla venerata memoria di Gustav Mahler” e il dipinto Il funerale di Mahler. Per spiegare quanto fosse però controverso il rapporto tra i due compositori, basta leggere questo passo. 

              Mahler giudicava la musica di Schönberg affascinante ed esasperante in egual 

              misura. “Perché mai scrivo ancora delle Sinfonie,” esclamò una volta, “se 

              questa dovrebbe essere la musica del futuro?”. Dopo una prova della 

              prima Kammersynphonie di Schönberg Mahler chiese ai musicisti di suonare 

              una triade di Do maggiore.

Schönberg era così amante della didattica che, difficilmente, lo si vedeva in giro senza i suoi “discepoli” tra i quali, gli illustri Alban Berg e Anton Webern che, anche se intraprenderanno la strada indicata loro dal Maestro, “ramificheranno” le loro tecniche compositive in direzioni alquanto diverse. Questa comunione di intendi, questa corrente compositiva, farà nascere la seconda scuola viennese. Anche se tra alti e bassi – nel 1926 è di nuovo a Berlino succedendo a Ferruccio Busoni in qualità di insegnante di composizione all’Accademia delle Arti – restò nella sua madre patria fino al 1933. Trasferitosi negli States, continuerà a comporre e, soprattutto, ad insegnare con grande professionalità e dedizione. 

Le Opere

Andiamo adesso più nel dettaglio delle opere di Schönberg. Dopo le prime raccolte di Lieder, il suo lavoro più importante fu Verklärte Nacht (Notte trasfigurata) un sestetto d’archi del 1899, ispirato da Wagner e Strauss, molto lontano dal precedente quartetto, mai pubblicato, in stile brahmsiano. Per lunghi tratti, questo sestetto, attraverso cromatismi elevati, ci porta in una sorta di ambivalenze armonico/tonali, seppur conservando un notevole impeto contrappuntistico. La musica cameristica è importantissima in questo primo periodo schönbergheriano, ci saranno, infatti, in seguito i Gurrelieder – dove si sente ancora forte l’influenza wagneriana – e il poema sinfonico Pelleas und Melisande (curioso è che, Schönberg e Debussy, avessero scritto musica attingendo dallo stesso soggetto del poeta e drammaturgo Maeterlinck, senza che nessuno dei due lo sapesse). Sono del 1904/05 e 1905/06 il Quartetto in re minore op.7 e la Sinfonia da camera op.9, concepiti come unico blocco nello stile lisztiano della Sonata. La poesia di George, coinvolge così tanto il nostro Arnold che tra il 1907 e il 1909 compone vari Lieder e, proprio nel 1909 i Tre pezzi op. 11 per pianoforte e i Cinque pezzi op. 16 per orchestra, oltre al «monodramma» (chiamato così perché c’è un solo personaggio) Erwartung (Attesa). Unico personaggio, come dicevamo, è una donna smarrita nel bosco che incappa nel cadavere del proprio amato. Questo è il periodo in cui si inizia a parlare di Schönberg espressionista e, i termini atonale o atonalità, rifiutati dal compositore, divennero di uso comune. Le opere di questo periodo di pura «necessità interiore», termine che ricorre spesso nelle lettere con Kandinskij, vennero fuori grazie a visionarie intuizioni dalle affinità elettive di questi due pilastri dell’arte di inizio Novecento. In queste opere, si evince la ricerca di mezzi espressivi che convergono, ricerca fatta di colori, luci, scene, che può riportare alla mente il Suono giallo del suo amico pittore. Il 1911 segna un momento importante delle opere schönberghiane, la pubblicazione del Manuale d’armonia (Harmonielebre). In questo trattato che è, per certi versi, anche molto legato alla tradizione, si inizia a parlare di «melodia di timbri». Questa melodia di suono-colori, caratterizzata dalla timbrica strumentale, si può veder realizzata nell’op n.16 e, più precisamente, nel terzo pezzo. Sempre dello stesso anno, i Sei piccoli pezzi per pianoforte op. 19, dove sono evidenti delle brevissime illuminazioni, pura astrazione. Il 1912 è l’anno di uno dei suoi capolavori, forse quello che, più di ogni altra opera, ha suscitato enorme scalpore fin dalla sua prima rappresentazione, il Pierrot lunaire, opera rivoluzionaria, paragonata da Casella, addirittura alla teoria della relativitào alla nascita del cubismo. In questa opera che ha, letteralmente stravolto, “rotto” i canoni della composizione, ci sono moltissime forme libere ma anche forme contrappuntistiche rigorosamente legate alla tradizione: canone per moto retto o retrogrado, passacaglia, valzer, barcarola. Stilisticamente, Schönberg, sta proseguendo per la sua strada, una strada non molto apprezzata, come sappiamo, neanche da chi gli è più vicino. Da una lettera di R. Strauss alla vedova Mahler, si evince come non è apprezzato dal compositore che gli aveva fatto anche da filantropo, addirittura dice di Schönberg che imbratta carta con le cose che scrive. Gli anni della “grande guerra” sono gli anni in cui Schönberg lavorò quasi esclusivamente ai bellissimi Lieder op. 22 con orchestra 1913-16 e all’oratorio Die Jakobleiter (La scala di Giacobbe) 1917-22 rimasto incompiuto. La nuova organizzazione di linguaggio che consentisse, come diceva Schönberg, il recupero di forme di ampio respiro anche nell’ambito strumentale, portò il musicista viennese, dopo circa dieci anni di attività creativa di altissima qualità anche se limitata, alla proposta del metodo dodecafonico. Il metodo per la composizione con 12 note che stanno in rapporto soltanto fra loro (quella che, comunemente chiamiamo dodecafonia) permetterà a Schönberg, soluzioni stilistiche e formali più disparate. Le serie su cui si basano le composizioni di Schönberg, ci rimandano anche alle “architetture” contrappuntistiche dei compositori fiamminghi, anche se viste con una prospettiva diversa. Nelle due raccolte di composizioni pianistiche del 1920-23, c’è una svolta ancora più netta. I Cinque pezzi per pianoforte op. 23 proseguono idealmente ciò che si è visto nel Pierrot e la Suite op. 25, seppur con le sue forme classiche, è un chiaro esempio di negazione sistematica della tonalità. Nel 1930-32, l’ultima opera “europea” è l’incompiuta Moses und Aron. In quest’opera si può notare come, alla voce tenorile di Aronne, si contrappone lo Sprechgesang di Mosè. Tra le opere più importanti del periodo americano, bisogna ricordare, sicuramente Ode to Napoleon 1942, con chiari riferimenti ai dittatori di quel periodo storico e, soprattutto, “la toccante” a Survivor from Warsaw op. 46 (Un sopravvissuto di Varsavia). Nei prossimi paragrafi, analizzeremo più da vicino il Pierrot lunaire e A Survivor from Warsaw. 

Pierrot Lunaire

Commissionata dall’attrice/cantante Albertine Zehme, e finanziata dal suo ricco marito, quest’opera,ci porta in dimensioni alquanto irreali, ironiche, stravolgenti. Il testo è basato sulle poesie di Albert Giraud che è un “simbolista” e, questa cosa, affascina moltissimo il nostro Schönberg, sappiamo che, anch’egli, è molto legato alla numerologia. Le ventuno liriche, nella traduzione di Otto Erich Hartleben, divennero molto più morbose, facendo diventare Pierrot una figura del decadentismo tedesco.  L’opera è formata da 21 poesie divise in tre parti di sette ciascuna; ricordiamo che, il numero 7 rappresenta la totalità, il terreno ed il divino che si fondono (4 + 3) e, il numero 3, la perfezione divina. Schönberg era così legato alla potenza dei numeri che non utilizzava mai il numero 13 nelle sue opere (diventava 12a), questo stesso numero che ha “segnato” la sua vita e, purtroppo anche la morte (nascita e morte sono avvenute entrambe un giorno 13). La voce umana, in questo caso femminile, è in “canto parlato”, Sprechgesang. I musicisti sono cinque, alcuni di loro suonano più di uno strumento, l’organico completo è formato da otto strumenti: pianoforte, flauto (anche ottavino), clarinetto in La (anche clarinetto basso), violino (anche viola) e violoncello, (il fatto che gli esecutori sono cinque e, con Albertine e Arnold si arriva sempre al numero 7, sarà un caso?). Lo stesso Schönberg, nella prefazione, dà indicazioni precise su come deve essere “cantato” questo monodrama. 

«La melodia segnata con note nella Sprechstimme [la parte del recitante], non è destinata (tranne singole eccezioni, del resto indicate) ad essere cantata. L’esecutore [… ] si renda cosciente della differenza tra « suono parlato » e « suono cantato »: il suono cantato conserva immutata la sua altezza, mentre il suono parlato dà sì l’altezza della nota, ma la abbandona subito, scendendo o salendo. […] Non si desidera affatto un parlare realistico-naturalistico. Al contrario, deve essere ben chiara la differenza tra il parlare comune ed un parlato che operi in una forma musicale. Ma     esso non deve ricordare neppure il canto». 

Alla prima rappresentazione, 16 ottobre 1916, il Pierrot lunaire, ebbe un grande effetto sul pubblico. Qualche anno più tardi, Stravinskij, che era presente alla prima, definì, il Pierrot,«plesso solare e anima della musica della 

prima metà del ‘900». Purtroppo non c’è una registrazione della prima, ce n’è una del 1940, sembra, però, che ci fossero stati dei problemi, addirittura Schönberg non dirigerà le prove. I problemi sono dovuti anche al fatto che, il clarinettista non aveva mai suonato il clarinetto basso e che il flautista non fosse proprio all’altezza e poi vari problemi sulle partiture ecc. 

Analizziamo un pò più da vicino l’aspetto propriamente musicale. Il clima espressivo risulta l’esasperazione del cromatismo che dirotta, ormai decisamente, il linguaggio, verso l’atonalità come si era già visto nell’ Erwartung. C’è una fortissima instabilità tonale, non c’è attrazione armonica e, questa cosa, è utilizzata specularmente per mettere in evidenza una instabilità che porta ad una dimensione surreale. La gravitazione tonale, è completamente annullata sfruttando i dodici suoni cromatici. Ci sono ostinati di pianoforte e violino che utilizzano nove delle dodici note disponibili, più un La suonato dal flauto, quindi i suoni diventano dieci. L’idea della pan-tonalità schönberghiana inizia a venire fuori in modo netto. Concentriamoci, ora, ad analizzare la “tela” impregnata dai colori, di questo Sperchgesang. La mano destra del pianoforte presenta tutta l’apparenza del pianismo tradizionale: vi compaiono addirittura alcune triadi che, però, sono in contraddizione tonale con il violoncello e ancora, il flauto e il violino, continuano a esporre l’atonale ‘tema di Pierrot’; Il pianoforte, nel registro grave, sostiene il tutto con un accordo quartale (do-fa-si, 4ª aumentata che si sovrappone ad una 4ª giusta) accordo schönberghiano caratteristico. Lo stesso Schönberg denominava questo tipo di accordo, ’emancipazione della dissonanza’ che è una dissonanza non più vincolata a risolvere su una consonanza, ma apprezzata e comprensibile perché gruppo armonico a sé stante (già Wagner, nel suo Tristan e Debussy, utilizzavano questi tipi di accordi). 

Due esempi di Sprechgesang nel Pierrot Lunaire. 

A survivor from Warsaw

Come sappiamo, Schönberg era ebreo, anche se la sua religiosità è stata alquanto altalenante, ed ha sempre tenuto un legame molto forte con le sue radici. Quando, nel 1947, assiste ad una testimonianza di un ebreo, scampato, ad un massacro nel ghetto di Varsavia, in soli dieci giorni compone questa meravigliosa opera in tre lingue, che viene definita Oratorio, pur essendo di breve durata (solo sette minuti). La voce narrante si alterna tra: l’inglese e, nelle parti del sottufficiale nazista, il tedesco, mentre, il coro ribelle degli ebrei che, con il loro canto sprigionano l’essenza pura della loro religiosità pur sapendo che moriranno nei forni crematori, è in ebraico. Questo coro, diventerà l’emblema dell’opera. La testimonianza non può essere integrale, in quanto, il sopravvissuto, dopo aver preso un colpo, cade morto, almeno così credono i soldati nazisti. Si riprende solo quando sente i suoi parenti, amici, compagni che intonano il canto/preghiera Shemà Isräel che diventerà, come abbiamo detto prima, il canto simbolo della Shoah.  

Vediamo più da vicino come è strutturata l’opera. C’è una introduzione orchestrale, poi inizia a parlare la voce narrante, spiegando una tipica giornata nel ghetto di Varsavia, in modo particolare, intrecciandosi con l’orchestra, ci permette di rivivere l’angoscia di quel particolare giorno che è stato raccontato dal superstite. Gli abitanti del ghetto, furono svegliati prestissimo e radunati in punti di raccolta; li inizia la conta di chi dovrà essere portato nelle camere a gas. Vediamo in modo più dettagliato la compagine. C’è, come abbiamo visto, una voce recitante, il coro maschile e l’orchestra. L’orchestra è raramente impiegata al completo, i vari strumenti intervengono individualmente, per interrompere la continuità del narratore. Spesso suonano su registri estremi, o molto gravi o molto acuti. La musica è atonale quindi dissonante, difficilmente si riesce a ricordare una frase melodica, ed è dodecafonica, seriale. Il tempo varia a seconda del discorso del narratore, tranne quando il sottufficiale nazista fa fare la conta. Grazie ad un maestoso crescendo dell’orchestra, si arriva al fortissimo, del coro che canta all’unisono con dei piccoli e stridenti interventi dell’orchestra. Milan Kundera lo definirà «il più grande monumento dedicato all’Olocausto» in un’intervista alla Repubblica dell’ottobre 2007. 

Conclusioni 

La strada intrapresa da Schönberg e dai suoi allievi, soprattutto Berg e Webern, è stata considerata sempre molto complessa, quasi ostica, anche se è stata apprezzata da molti compositori ed ha influenzato tantissimi musicisti (tra cui molti italiani: Nono, Berio ecc). Gli stessi Strauss e, soprattutto Mahler, benché riconoscessero la grandezza del loro “protetto”, erano sempre un po’ titubanti nel considerare e pubblicizzare il suo impatto a livello sociale e comunicativo. In realtà, è complicato, come abbiamo visto, poter ricordare una qualsiasi frase melodica delle opere schönberghiane. Non c’è dubbio però che, nel contesto storico/artistico estremamente sfaccettato in cui è vissuto, stavano avvenendo così tanti cambiamenti che, solo grazie a Schönberg, anche la Musica è potuta stare sempre “al passo coi tempi”. 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *